Introduzione a 'La Mano Sinistra del Buio' di Ursula K. Le Guin
Una piccola storia felice. 2 anni fa provo a cimentarmi nella lettura di The Left Hand of Darkness di Ursula K. Le Guin ma nonostante gli sforzi l’unica copia che riesco a recuperare è in lingua inglese.
Il libro è denso, complesso e la forma della scrittura è una parte fondamentale del suo senso, per questi motivi leggerlo in lingua originale è estremamente faticoso. Abbandono.
Cerco una copia in italiano ma l’unica opzione appare e scompare da AbeBooks e Subito.it: costa uno sproposito ed è un volume sgualcito pubblicato da Casa Editrice Nord.
Me ne scordo, ma la trama del libro — ovvero quella di un diplomatico umano che sbarca su un pianeta dove la specie umanoide che lo abita non ha genere, il quale si manifesta solo una volta al mese in modo pressoché casuale per l’accoppiamento — mi rimane stampata in testa.
Poco più di un mese fa ci ripenso. Per puro caso, quello stesso giorno Mondadori pubblica in sordina la nuova edizione italiana de La Mano Sinistra del Buio con la nuova traduzione di Chiara Reali. Felicissimo la compro: in italiano si può fare, ma ci sto mettendo comunque secoli. Il libro è sorprendente, ma ancora di più lo è l’introduzione che lo accompagna.
È un breve scritto dalla stessa Le Guin in cui spiega le differenze tra i vari tipi di fantascienza e quanto sia fondamentale, oggi, affidarsi a degli esperimenti di pensiero (come li definisce lei) per immaginare, davvero, dei futuri diversi dal nostro.
Per Le Guin, compito della fantascienza non è prevedere ma descrivere, ed è in questo processo di descrizione del mondo presente che emergono le contraddizioni con cui abbiamo a che fare ogni giorno. E, sicuramente, prima di immaginare soluzioni, serve poter descrivere il problema.
Non me ne voglia Mondadori (o me lo scriva per mail, nel caso), ma ho ricopiato l’introduzione parola per parola perché credo sia una lettura importante per chiunque si occupi di immaginazione, ovvero del futuro della realtà.
Se ci sono dei refusi, è colpa mia. (Se non conoscete Le Guin, nel mio podcast discontinuo Stella Kamikaze avevo letto Il giorno prima della rivoluzione, un suo bellissimo racconto breve.)
La fantascienza è spesso descritta, e persino definita, come estrapolativa. Da chi scrive fantascienza ci si attende che prenda un trend o un fenomeno nel qui e ora, lo purifichi e intensifichi a fini narrativi, e lo proietti nel futuro. “Ecco che cosa succederà se continuiamo così.” Viene fatta una previsione. Metodo e risultati ricordano molto quelli di uno scienziato che somministri ai topi grandi dosi di un additivo alimentare in forma pura e concentrata per cercare di prevedere cosa potrebbe succedere alle persone che ne assumano piccole quantità per un periodo di tempo prolungato. Le conclusioni punteranno quasi inevitabilmente al cancro. E l’estrapolazione giungerà alle stesse conclusioni. Le opere di fantascienza strettamente estrapolative di solito arrivano alle stesse conclusioni a cui arriva il Club di Roma: scenari compresi fra l’estinzione graduale della libertà umana e l’estinzione totale della vita terrestre.
Questo potrebbe spiegare perché molte persone che non leggono fantascienza la descrivano come “escapista” ma, incalzati, ammettano di non leggerla perché “è troppo deprimente”.
Quasi ogni cosa, se portata alle sue estreme conseguenze logiche, diventa deprimente, quando non cancerogena.
Per fortuna, anche se l’estrapolazione è uno strumento importante per la fantascienza, non è certo l’unico. È troppo semplice e razionale per appagare l’immaginazione, che sia dell’autrice o del lettore. La varietà dà più gusto alla vita. Questo romanzo non è estrapolativo. Se vi aggrada potete leggerlo, allo stesso modo di tanta altra fantascienza, come un esperimento di pensiero. Ipotizziamo (ipotizza Mary Shelley) che un giovane dottore crei un essere umano nel suo laboratorio; ipotizziamo (ipotizza Philip K. Dick) che gli Alleati abbiano perso la Seconda guerra mondiale; ipotizziamo che questo o quello vadano così o cosà… E vediamo che cosa succede. In una storia concepita in questo modo non c’è bisogno di sacrificare la complessità morale tipica del romanzo moderno, né ci sono esiti predefiniti; pensiero e intuito possono muoversi liberamente all’interno di confini posti solo dai termini dell’esperimento, termini che peraltro possono essere anche piuttosto laschi.
Lo scopo di un esperimento di pensiero, nel senso in cui questo concetto è stato usato da Schrödinger e da altri fisici, non è quello di prevedere il futuro — addirittura il più famoso esperimento di pensiero di Schrödinger dimostra che il “futuro”, sul piano della fisica quantistica, non può essere previsto — ma quello di descrivere la realtà, il mondo presente.
La fantascienza non prevede; descrive.
Le previsioni sono enunciate dai profeti (gratis), dai chiaroveggenti (che di solito si fanno pagare, e finiscono così per essere rispettati nella loro epoca più dei profeti) e dai futurologi (stipendiati). Le previsioni sono compito di profeti, chiaroveggenti e futurologi. Non sono compito dei romanzieri. Il compito dei romanzieri è mentire.
Il servizio meteorologico vi dirà che tempo farà martedì prossimo, e la RAND Corporation vi dirà come sarà il Ventunesimo secolo. Non consiglio a nessuno di rivolgersi agli scrittori di fiction per ottenere queste informazioni. Darvele non è compito loro. Al massimo possono cercare di raccontare se stessi e voi — e gli eventi del mondo —, che tempo c’è adesso, oggi, in questo momento, la pioggia, il sole, guardate! Aprite gli occhi; ascoltate, ascoltate. Ecco cosa dicono i romanzieri. Ma non vi dicono cosa vedrete o sentirete. Possono solo raccontare quello che hanno visto e sentito, nel loro tempo su questa Terra, un terzo del quale passato a dormire e sognare, un altro terzo a raccontare bugie.
“La verità è più importante dei fatti.” Sì. Certo. Chi scrive fiction, almeno nei momenti di più grande coraggio, desidera davvero la verità: conoscerla, dirla, servirla. Ma lo fa in modo indiretto e insolito, ovvero inventando personaggi, luoghi che non sono mai esistiti e non esisteranno mai, eventi che non sono mai accaduti e non accadranno mai, e raccontando queste funzioni nel dettaglio e lungamento e con grande emozione per poi, una volta finito di scrivere questo mucchio di bugie, dire: Ecco! Ecco la verità!
Chi scrive fiction può usare fatti di ogni tipo a sostegno della sua tela di bugie. Può descrivere la prigione di Marshalsea, un luogo realmente esistito, o la battaglia di Borodino, che è stata combattuta davvero, o il processo di clonazione, che avviene veramente nei laboratori, o il deterioramento di una personalità com’è descritto nei testi di psicologia, e via dicendo. Il peso di luoghi, eventi, fenomeni, comportamenti verificabili fa sì che il lettore dimentichi di stare leggendo una pura invenzione, una storia che non sarebbe mai potuta accadere se non in una regione impossibile da localizzare: la mente dell’autore. Quando leggiamo un romanzo siamo folli, fuori di testa. Crediamo nell’esistenza di persone che non esistono, sentiamo le loro voci, assistiamo alla battaglia di Borodino insieme a loro, possiamo persino diventare Napoleon. La sanità mentale ritorna (nella maggior parte dei casi) a libro finito.
C’è da meravigliarsi che nessuna società davvero rispettabile abbia mai riposto fiducia nei suoi artisti?
Ma poiché la nostra società è instabile e confusa, alla ricerca di una guida, a volte mal ripone la propria fiducia nei suoi artisti, usandoli come profeti e futurologi.
Non dico che l’artista non possa essere preveggente, ispirato: che l’awen non possa discendere su di lei, che il dio non possa parlare attraverso di lui. Chi farebbe l’artista se non credesse in questa possibilità? Se non sapesse che succede davvero, perché ha sentito il dio dentro di sé muovergli la lingua, le mani? Anche solo una volta, una sola in tutta la vita. Ma una volta basta e avanza.
Né affermerei mai che questi oneri e onori siano propri solo dell’artista. Anche lo scienziato si predispone, si prepara, lavorando notte e giorno, nel sonno e nella veglia., a essere ispirato. Come sapeva bene Pitagora, il dio può parlare nelle forme della geometria così come in quelle dei sogni; nell’armonia del puro pensiero così come nell’armonia dei suoni; nei numeri così come nelle parole.
Ma sono le parole complicare e a confondere. Ci viene chiesto ora di ritenere che l’unica utilità delle parole stia nel loro essere segni. I nostri filosofi, alcuni di loro, vorrebbero che accettassimo che una parola (una frase, un’asserzione) ha valore solo fintantoché ha un significato univoco e punta a un unico fatto comprensibile dall’intelletto razionale, solido dal punto di vista logico e, idealmente, quantificabile.
Apollo, il dio della luce, della ragione, delle proporzioni, dell’armonia, dei numeri — Apollo acceca chi lo adori troppo da vicino. Meglio non guardare direttamente il sole, ma infilarsi in un locale buio per un po’ a bere una birra con Dioniso, di tanto in tanto.
Parlo degli dei; io sono atea. Ma sono anche un’artista, e perciò una bugiarda. Diffidate di quello che dico. Sto dicendo la verità.
L’unica verità che sono in grado di comprendere o di esprimere è, se definita usando la logica, una bugia. Definita usando la psicologia, è un simbolo. Definita usando l’estetica, una metafora.
Oh, è molto gratificante essere invitate a partecipare ai convegni di futurologia in cui la Scienza dei sistemi mette in mostra i suoi grandiosi grafici apocalittici, sentirsi chiedere di dire ai quotidiani come sarà l’America nel 2001 e tutto quanto, ma è un terribile errore. Io scrivo fantascienza, e la fantascienza non riguarda il futuro. Non so del futuro più di quanto ne sappiate voi, probabilmente meno.
Questo libro non parla del futuro. Sì, inizia dichiarando di essere ambientato nell’Anno Ecumenico 1490-97, ma mica ci crederete, no?
Certo, i personaggi che lo popolano sono androgini, ma questo non significa che io stia prevedendo che nel giro di un migliaio di anni o giù di lì saremo tutti androgini, né sto dichiarando di pensare che, porca miseria, sarebbe meglio se lo fossimo. Sto semplicemente osservando, in maniera indiretta e insolita e attraverso un esperimento di pensiero com’è tipico della fantascienza, che se ci guardiamo in alcuni particolari momenti del giorno, in alcuni climi, lo siamo già. Non sto prevedendo, né prescrivendo. Sto descrivendo. Sto descrivendo alcuni aspetti della realtà psicologica nel modo in cui lo può fare una romanziera, ovvero inventando bugie elaborate e dettagliate.
Nel leggere un romanzo, qualunque romanzo, dobbiamo avere ben chiaro che tutta quella roba non ha senso e poi, leggendo, dobbiamo credere a ogni parola. E una volta finito potremmo scoprire, se si tratta di un buon romanzo, che siamo un po’ diversi da come eravamo prima di leggerlo, che siamo stati un po’ cambiati, come se avessimo incontrato un viso nuovo o attraversato una strada che non avevamo attraversato prima. Ma è molto difficile dire esattamente cosa abbiamo imparato, come siamo cambiati.
L’artista ha a che fare con ciò che non può essere detto a parole.
L’artista il cui mezzo è la fiction fa questa cosa a parole. Il romanziere dice a parole ciò che non può essere detto a parole.
Le parole possono così essere usate in modo paradossale perché hanno, insieme al loro utilizzo semiotico, un utilizzo metaforico o simbolico. (Hanno anche un suono — un fatto che i linguisti positivisti non prendono in considerazione. Una frase o un paragrafo sono come un accordo o una sequenza armonica nella musica: il loro significato è più chiaramente comprensibile a un orecchio attento, anche se viene letto in silenzio, che a un intelletto attento.)
Tutta la fiction è metafora. La fantascienza è metafora. Ciò che la distingue da forme più antiche di fiction sembra essere il suo uso di metafore nuove, derivate da alcuni grandi dominanti della vita attuale — la scienza, tutte le scienze, e la tecnologia, e la prospettiva relativistica e quella storica, fra queste. Il viaggio nello spazio è una di queste metafore; così come lo sono una società o una biologia alternative; il futuro è altro. Il futuro, nella fiction, è una metafora.
Una metafora per cosa?
Se avessi potuto dirlo senza usare una metafora, non avrei scritto tutte queste parole, questo romanzo; e Genly Ai non si sarebbe mai seduto alla mia scrivania a consumare il mio inchiostro e il nastro della macchina da scrivere per comunicare a me e a voi, in modo piuttosto solenne, che la verità è una questione dell’immaginazione.