La teoria del kebab

Pensavo che la simmetria informativa garantita da Internet avrebbe cambiato il mondo, finché non ho avuto più le forze di crederci.

La teoria del kebab
Alcuni scatti del manoscritto originale della teoria del kebab.

Sono in quarta superiore e passo gran parte del mio tempo su Internet. Uno dei miei professori, Roberto Ignazio Cortese (che saluto caramente), propone alla classe di partecipare a un concorso regionale di filosofia. Accolgo l’invito e qualche settimana dopo sono chino su un foglio protocollo a scrivere la brutta copia della mia, fondamentale, teoria del kebab.

Secondo la teoria del kebab, un mondo (il nostro) in cui esiste uno strumento (internet) in grado di, cito testualmente, "far conoscere agli eschimesi la ricetta e la storia del kebab", è un mondo in cui, cito di nuovo testualmente, "ogni paura del diverso può essere disinnescata".

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Questo testo è stato originariamente scritto e pubblicato per Dati sporchi, la fanzine che accompagna l'ultimo disco di Montag. Puoi acquistarla sul sito di Undermedia.

La teoria del kebab si fonda su un principio che, al tempo, davo per scontato: quello per cui ogni forma di conflitto è radicata in una differenza di conoscenze. Non ho paura di te per quello che so di te — invece, ho paura di te per quello che non so di te. Il corollario di questo principio è presto detto: colmata questa differenza di conoscenza, ogni forma di paura, diffidenza, timore nei confronti del diverso può essere disinnescata, garantendo incontri armoniosi, privi di qualsiasi frizione.

Chiaramente, la teoria del kebab non ha senso. È dozzinale, ingenua e intrinsecamente razzista. Applicata alla realtà, si sgretola con una folata di vento. Racconta, però, un aspetto fondamentale della mia adolescenza: l'ingenuo amore che provavo per Internet.

Io (sdraiato), anni 16, dormo profondamente cullato dalla fiducia che provavo verso Internet. Amedeo, caro amico, in procinto di interrompere questo lungo riposo e riportarmi alla realtà.

Io in Internet ci credevo, forse perché lo conoscevo molto meno di quanto lo conosca oggi.

Credevo nella sua capacità di farmi scoprire cose incredibili. Credevo nella possibilità di conoscerci persone impensabili. Credevo nei modi in cui mi faceva divertire, pensare e cospirare. Ero innamorato delle centinaia di pagine scritte da un gruppo di blogger italiani per smentire le teorie secondo cui lo sbarco sulla Luna non è mai avvenuto. Allo stesso tempo, ero innamorato degli archivi online curati da misteriosi centri religiosi italiani e dedicati alla raccolta e alla catalogazione di presunti messaggi subliminali a sfondo satanico.

Ero innamorato di tutte le cose che sapevo e che non vedevo l'ora di condividere aggressivamente sui forum. Ero innamorato anche di tutte quelle persone che facevano lo stesso con me, umiliandomi pubblicamente (non è vero, questo lo odiavo) e obbligandomi a ricordare quanto stronzo e saccente fossi. Ero innamorato dello scoprire, ciclicamente, che per ogni mia nuova passione, su Internet c'era già una folta comunità di persone con una conoscenza assolutamente verticale di quella nicchia. Internet, e tutto ciò che lo riguardava, mi faceva avere le farfalle nello stomaco: ci pensavo a scuola, prima di andare a dormire, quando viaggiavo in autobus. Prendevo appunti, costruivo goffamente. Incontravo dal vivo le persone conosciute online. I miei migliori amici erano nickname in una chat vocale durante una partita a Left 4 Dead. Il mio mondo era tutto lì, e tanto mi bastava.

La teoria del kebab mi aveva insegnato che mi sarebbe bastato Internet per conoscere il mondo. Ci ho creduto, finché il mondo non è venuto a conoscere me con tutte le sue sfumature, i suoi dubbi e le sue vicende, semplicemente, ingiuste. Più passava il tempo, più la teoria del kebab veniva messa alla prova - per comprendere il mondo dovevo scoprire di più e trovare qualcuno su Internet, l'unico luogo dove mi sentivo a mio agio, che me lo spiegasse. Ma più vivevo e meno mi era chiara che domanda volessi fare perché mi mancavano le parole per spiegarmi. E più mi rivolgevo insistentemente a Internet, più faticavo a trovare degli spazi che avessero posto per tutta la mia confusione.

Io, anni 17, davanti alla maestosa meraviglia di Meteora, in Grecia, che cerco campo per connettermi a Internet e poter esplorare il web durante la gita di quinta superiore.

Di ragioni, per questo, ce ne sono molte. Gli algoritmi, l'economia delle piattaforme, i social network, i titani della Silicon Valley, l'estrattivismo digitale, il capitalismo dell'attenzione, la crisi del contenuto, l'era della post-verità, la società della vergogna. In questa pubblicazione, una collega ben più illustre di me parla di "infinite dissociation machine": Internet come forma di reazione a un trauma collettivo - confusi dal mondo esterno, ne plasmiamo uno digitale prevedibile, polarizzato, cangiante e comprensibile. Le sfumature si appiattiscono e torniamo a tracciare confini chiari che innescano conflitti di pancia, quasi partitici. Ci diamo pace riducendo il numero di parole necessarie per descrivere questo mondo, ma a furia di nasconderci dentro di esse perdiamo la capacità di inventare nuove definizioni per ciò che sentiamo.

Così, quelle sfumature smettono di essere nominate - non scompaiono, ma escono di scena. Continuano a vivere dentro di noi, però, e covano risentimento perché non vengono ascoltate. Lentamente generano una frattura tra il mondo digitale e quello reale e svelano Internet come un grande scherzo collettivo, una società parallela costruita a misura di un unico bisogno: fuggire. Iniziamo a fare ecologia dei contenuti che divoriamo. Il nostro senso dell'umorismo cambia, cerchiamo solo ciò che già riconosciamo, ci facciamo bastare ciò che già abbiamo perché il pensiero di incontrare qualcosa di nuovo ci affatica. Su Internet c'è spazio per tutto, ma lentamente chiudiamo le finestre delle nostre stanze digitali per non complicare questa semplicità.

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Internet è una tecnologia straordinaria che ha rivoluzionato il nostro rapporto con la conoscenza. Ha abbattuto distanze prima incolmabili e ha scaraventato il concetto stesso di cultura nell'era dell'ipertesto. Tutto ciò che è informazione assume una nuova caratteristica essenziale - è tale fintanto che è parte di una rete di collegamenti: una costellazione di altri elementi che contribuiscono ad arricchire il nostro patrimonio semantico, permettendoci di discutere del mondo in quante più possibili delle sue sfumature. Abbiamo reso questa possibilità uno strumento globale, abbiamo generato una quantità colossale di dati, abbiamo creato dispositivi economici ed infrastrutture capillari per permetterci di accedere a questo patrimonio ovunque e in ogni momento.

Noi abbiamo inventato tutto questo e poi ce lo siamo dimenticati.

Io, anni 20, insieme alla redazione della rivista online dedicata ai videogiochi indipendenti che avevo aperto a 14 anni, quando avevo enorme fiducia in Internet.

Stremati dal mondo esterno, non abbiamo avuto la forza di resistere alla trasformazione di Internet in una società basata su intrattenimento, scontro e reputazione - un reality show progettato per soddisfare un'esigenza profondamente umana: trovare conforto in ciò che è prevedibile. Abbiamo chiuso le vie d'accesso ai collegamenti con l'inaspettato che Internet, all'inizio, ci aveva fatto scoprire. Ci siamo arroccati in complesse fortezze identitarie pensate per privarci del bisogno del confronto. Abbiamo reso ciò che è sconosciuto un pagliaccio da schernire, anziché una nuova chiave di lettura della realtà.

Lo strumento è sempre rimasto lo stesso, ciò che è cambiato è il nostro modo di usarlo. Siamo incastrati in una via apparentemente a senso unico perché a furia di demandare a Internet la creazione di una realtà semplice, ora questo spazio ha forme, strutture e intermediari che obbligano la semplicità. Cercare qui, oggi, di affrontare la complessità in cui siamo immersi è come avere un ottimo progetto ma pessimi attrezzi. Gli sforzi saranno sempre insufficienti. Per poter tornare a farlo dobbiamo ricordarci delle potenzialità di questo strumento. Dobbiamo tornare a provare religiosa gratitudine per l'assurda meraviglia di disporre di una rete istantanea di comunicazione globale che possiamo plasmare a nostro piacimento. Possiamo scoprire ogni modo di scoprire ogni cosa. Possiamo tornare a confermare la teoria del kebab.

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